Mercoledì 4 Giugno 2003 - Libertà
"Il passato come archivio di oggetti utilizzabili"
L'intervista. Il curatore Marco Senaldi mette in luce il rapporto tra l'originale e il rifacimento
"Cover Theory", la mostra esposta fino al 29 giugno all'Officina della Luce (ex Centrale Emilia) col patrocinio di Regione, Provincia, Fondazione di Piacenza e Vigevano e Piacenza Turismi in collaborazione con Comune e Libertà, è una delle pochissime esposizioni di arte contemporanea organizzate a Piacenza ad aver attirato l'attenzione della grande stampa nazionale al di là degli organi specializzati.
Ed è un caso da manuale di operazione culturale di successo che prende le mosse da un'idea semplicissima ma feconda. Come il titolo (chiarito dal sottotitolo: "L'arte contemporanea come re-interpretazione") lascia comprendere, è stata la pratica, che va tornando di gran moda, delle "covers" (termine che nella musica pop indica i rifacimenti dei brani altrui) a ispirare al curatore Marco Senaldi una chiave interpretativa di tanta arte contemporanea e l'idea stessa di questa mostra. Critico, collaboratore dell'Università Statale di Milano, fondatore di riviste e creatore di programmi tv, Senaldi (che ha da poco aperto uno studio a Piacenza) ha discusso con noi di questa idea.
Il rifacimento, la riscrittura, la parafrasi di opere anteriori sono procedimenti che nei secoli hanno attraversato regolarmente la storia delle arti. Qual è, in questo contesto, il lato originale delle tendenze che hai voluto mettere in luce in "Cover Theory"?
"Il peculiare rapporto che molta arte contemporanea intrattiene col passato, analogo a quello delle "cover" pop con l'originale: l'originale non è soppiantato, ma è presente come un fantasma, incombente eppure lontano. La pratica della "cover" non dà la sensazione di tornare indietro nel tempo, ma di stare in un "tempo doppio". L'estetica dei remix delle canzoni di successo, e del citazionismo che va prendendo piede nel design industriale, non è lontana da quella dell'opera di Pierre Menard, il celebre personaggio di Borges che riscriveva il "Don Chisciotte" con le stesse parole, ma in un contesto totalmente mutato che le fa apparire nuove".
A mio avviso le "cover" si dividono in due categorie: alcune, come Pierre Menard, ripropongono con spettrale fedeltà l'originale, o frammenti dell'originale, in un contesto mutato. Ma altre intervengono direttamente sulla forma dell'originale, stravolgendola, piegandola a nuove esigenze espressive. E' il caso di distinguere fra una "estetica del remix" e una "estetica del remake"?
"Probabilmente sì. Ma esiste anche un elemento che unifica i due procedimenti: la perdita del senso di una differenza tra passato e presente, oltre che tra le varie età del passato. Questo generale volgersi al passato coincide, paradossalmente, con una perdita del senso della storia".
Insomma: il passato è visto come un puro archivio di oggetti "utilizzabili".
"Proprio così".
E' possibile che il senso della storia, cacciato dalla porta, possa rientrare dalla finestra? Nelle musiche pop, nella moda, nell'innovazione tecnologica, nella messa sul mercato di nuovi oggetti, dire "un anno fa" è come parlare di un'altra era geologica.
"E' vero: questa esasperata periodizzazione dell'esperienza recente è qualcosa di assurdo, che a mio avviso dovrebbe ridimensionarsi e finirà probabilmente per essere ridimensionato in breve tempo. Nondimeno, si tratta di un fenomeno interessante e meritevole di essere studiato: magari attraverso un'altra mostra" (ride).
Oltre a quella degli artisti presenti con le loro opere, colpisce la quantità e l'eterogeneità dei grandi nomi che hanno offerto contributi intellettuali al catalogo.
"Ne sono molto orgoglioso. Specie per quanto riguarda il filosofo Slavoj Zizek, una conoscenza "importante" che ho maturato in ambito universitario e che contribuisce al libro con un fantastico saggio su Hitchcock, e soprattutto Douglas Coupland, lo scrittore di "Generation X"".
Fra le opere esposte a "Cover Theory" c'è ne qualcuna che ritieni particolarmente significativa, in qualche modo esemplare del tono della mostra?
"Dovendo indicarne una sola, non ho dubbi: l'accoppiata di fotografie di Giulio Paolini, col "Giovane che guarda Lorenzo Lotto" del 1967 duplicato dalla "Controfigura (critica del punto di vista)" stampata su tela emulsionata 14 anni dopo. Un'immagine, eguale ma dissimile, di un'immagine che a sua volta ci mostra un'altra immagine: uno straordinario cortocircuito estetico e concettuale, che non a caso è stato scelto da me per accogliere i visitatori all'ingresso della centrale".
Oliviero Marchesi