Domenica 24 Agosto 2003 - Libertà
Il custode di Bobbio
Cultura in un archivio aperto al mondo
Un uomo con una profonda cultura ed un amore unico per la Valtrebbia, che seppur sia emigrato in un paese straniero, ha sempre mantenuto forti e costanti legami con il suo paese d'origine. E' il professor Flavio Giuseppe Nuvolone, che lo scorso 10 agosto, ha ricevuto il prestigioso riconoscimento quale piacentino benemerito, dalla associazione Piacenza nel Mondo. Nuvolone, oltre a detenere la cattedra di Letteratura Cristiana Antica presso l'università di Frigurgo in Svizzera, è il direttore scientifico della autorevole rivista "Archivum Bobiense". In queste calde giornate agostane, ci siamo recati ad Ottone Soprano, villaggio nei pressi di Ottone con un clima invidiabile, per incontrare il prof. Nuvolone. Ha lasciato l'Italia da bambino? "Si, avevo solo due anni. Mia mamma stava attendendo mio fratello Mario, in seguito nasce anche Corrado. A quei tempi i miei zii venivano in Italia spesso, si erano sposati nel 1927. Mia zia all'epoca lavorava a Genova, dove si sono conosciuti. Mio zio Ernst, si era trasferito nella città della Lanterna a soli vent'anni, dove divenne procuratore generale dell'Istituto Laniero di Genova. Ma durante il fascismo perse il posto, per effetto di una legge che imponeva la sostituzione di tutti gli stranieri che occupavano posti di comando. L'ultimo luogo di lavoro fu la Textil Trasport di Chiasso. Dopo alcuni anni trascorsi a San Germano Chisone, località sulle alpi torinesi, nel 1946, i miei zii si trasferirono a Basilea". Ha però sempre mantenuto i legami con l'Italia. "Costantemente. Per le leggi della immigrazione svizzera una famiglia non poteva avere un bambino in assenza dei propri genitori per un periodo prolungato. All'inizio i miei zii mi avevano preso grazie ad un permesso per vacanze/turismo che ottenevano dalla polizia svizzera, per un periodo di sei mesi. Scaduto il termine, rientravo quindi in Italia per poi ritornare in Svizzera. Così ho mantenuto dei legami abbastanza puntuali. Visceralmente sono sempre rimasto legato ai miei. Casa mia rappresentava anche un mondo diverso. Passai un solo periodo prolungato ad Ottone Soprano, con l'inverno. Mi buscai tutto, orecchioni, bronco-polmonite, e divenni la disperazione di mia zia quando mi ricuperò, oltre che del dottore di famiglia, che dovette curarmi con la penicillina e sottopormi a cure e controlli ripetuti. Fu un inverno con una quantità impressionante di neve, con slittate eccezionali, veramente mitico. In Svizzera ho ottenuto molto, però descrivevo sempre Ottone Soprano come un luogo di libertà e di affetti. In seguito venivo durante le vacanze scolastiche". Quindi la Valtrebbia le è sempre rimasta nel cuore. "In questa valle ho sempre trascorso le vacanze, seppure in periodi diseguali. Con l'arrivo delle bambine, i soggiorni ad Ottone si sono prolungati. Nel periodo estivo accompagnavo la famiglia, le sistemavo poi rientravo in Svizzera, per poi ritornare ad Ottone Soprano a fine vacanza. In totale rimanevo in Italia venti giorni, loro due mesi". Avete voluto creare un legame anche per le sue figlie? "E' quello che abbiamo tentato di fare con mia moglie e in parte ci siamo riusciti, ad esempio le ragazze parlano italiano. Dal punto di vista culturale la cosa non è stata inutile". Torniamo ai suoi primi anni di vita, quali furono i motivi per cui i suoi zii svizzeri la presero con loro? "La situazione dei miei genitori era assai difficile, ed io ero il primogenito: fu lo scontro tra una coppia di contadini di una certa età (mio papà 42 anni, mia mamma 37) ed un bambino che nascendo col suo testone ruppe tutto, e complicò notevolmente la situazione. Così, quando si annunciò il secondogenito, mio fratello Mario, mia zia Anita e mio zio Ernst, che non avevano bambini, si offersero di prendermi presso di loro a Basilea. Fu l'inizio del mio inserimento in una nuova famiglia e dello sradicamento dall'altra". Si ritrovò quindi in un ambiente profondamente diverso? "Nei miei ricordi rimangono una palla e l'astuccio della macchina fotografica di mio zio: due oggetti ai quali tenevo molto agli inizi. Infatti il passatempo preferito nella casa dei miei era starmene nella greppia a giocare con la catena delle mucche. E quando gli zii vennero un paio di volte a farci visita mi incantarono con quegli oggetti. Mi ritrovai inserito in un altro ambiente, certamente "viziato" come diranno spesso in Val Trebbia. Incontrai altri parenti, altri zii e zie, altri cugini, altri nonni, al momento mi restavano i genitori di mia mamma a Cariseto, quelli di mio padre erano defunti l'uno vent'anni prima della mia nascita, l'altra sei mesi dopo. Effettivamente mi si offrirono mezzi, giochi ed educazione che non avrei avuto altrove". Lei ricorda sempre con particolare affetto, oltre sua zia Anita, suo zio Ernst. "A Basilea ero letteralmente sedotto da lui: il lavoro e i viaggi che faceva, le lingue che padroneggiava (era poliglotta), il suo suonare il violino in una formazione polifonica e le lezioni che dava a tutt'una serie di studenti. A livello umano la facilità dei contatti e la generosità delle amicizie. Ero estremamente fiero quando mi prendeva con lui, che fosse in ufficio, al porto sul Reno, in un bar, allo stadio St. Jakob, nell'andata domenicale a Liestal dai nonni. Il fine settimana era anche l'occasione della riunione della piccola famiglia, un momento sempre più raro col passare degli anni, l'infittirsi degli impegni e il deteriorarsi della salute". Anche sua moglie è italiana. "Si, è Rosalia Nobile (di Semenzi, frazione di Ottone). Il matrimonio e la nascita della prima figlia mi ricondusse più decisamente in Val Trebbia, e fu l'occasione di intraprendere più seriamente delle ricerche storiche. A 16 anni avevo infatti già ricostituito una genealogia della mia famiglia, ma nulla più. Allora avevamo affittato una casa costruita sui muri d'una vecchia torretta malaspiniana e stando con le bambine, (Katiuscia c'è nata a distanza di 22 mesi nel 1974) scartabellavo documenti d'archivio e annotavo. Da quelli della parrocchia fu poi costretto a passare a quelli degli Archivi Storici Bobiensi a Bobbio, da poco costituiti per volontà di mons. Pietro Zuccarino, allora recentemente scomparso". Fu allora che conobbe mons. Michele Tosi. "Quella fu l'occasione di un incontro con Tosi che era il direttore degli archivi, uomo di fatto assai isolato e ombroso. Ma uno scambio di servizi sgelò l'atmosfera. Fu così avviata una collaborazione che doveva durare circa un quarto di secolo e che vide la realizzazione della Rivista nel 1979 e negli anni successivi, le celebrazioni del 500° delle Traslazioni bobiensi del 1481, il Congresso su Gerberto "Gerberti Symposium" del 1983, l'avvio dello studio delle Opere di Colombano assieme a don Santino Poggi ed al Prof. Paolo Todde. La collaborazione di un'antenna universitaria era essenziale al prosieguo critico, documentato ed efficace di queste iniziative. E così fu. Ciò è attestato da un'intensa sequenza di scambi di corrispondenza, invii di riproduzioni, volumi, bibliografia e documentazione varia reperibili tra le carte superstiti del Prof. Tosi e tra le mie carte". Questa collaborazione portò numerosi risultati? "Un momento certamente particolare fu il Gerberti Symposium del quale ero co-organizzatore, e della preparazione del quale informai anche il Papa, Giovanni Paolo II, in occasione di un congresso all'Augustinianum (Università del Laterano) nel 1982. Su tale avvenimento esiste una rievocazione specifica negli Atti del più recente Congresso del 2000 edito in Studia IV. Basti dire che corrispose al primo congresso in assoluto sul personaggio e al riavvio degli studi gerbertiani a livello mondiale. Un secondo, non ancora concluso, è quello della pubblicazione bilingue delle opere di Colombano su Archivum Bobiense e la riunione delle stesse in altra sede. Sulla rivista sono usciti diversi pezzi dell'Appendice, e poi soprattutto le Lettere con un commento attento allo spirito colombaniano e alla sua specifica sensibilità scritturistica. Sono attualmente in gestazione i Sermoni, lavoro certo improbo dopo la recente scomparsa di due collaboratori esimi dell'iniziativa: i prof. Santino Poggi e Paolo Todde che ricordo con particolare commozione e riconoscenza. Dal 1996 è ripresa la costante pubblicazione di Archivum Bobiense, sei volumi fino al più recente, e dei due volumi congressuali che vi si sono aggiunti nella serie Studia". E quest'anno è arrivato il prestigioso riconoscimento dei piacentini nel mondo. "Quando lo scorso 19 maggio, alla Fondazione durante la presentazione del Volume 24 di Archivum Bobiense, mi fu comunicata la notizia, ero rimasto esitante, mi chiedevo il senso e se ero la persona giusta. Ci sono migliaia di lavoratori piacentini in molti altri paesi, che meritano di essere premiati e riconosciuti. Ho riflesso e sono stato convinto che la cosa poteva avere un senso. Per questa attenzione, l'ho anche ricordato a Castell'Arquato, desidero ringraziare la mia famiglia, in particolare a mia mamma che mi ha dato la vita ed un grazie ai miei zii, la famiglia di accoglienza, che mi ha permesso di arrivare dove sono. Voglio interpretare questo riconoscimento, prima che per l'attività di insegnamento e di ricerca universitaria a Friburgo, per la realizzazione di un vero e proprio ponte culturale rappresentato dalla rivista Archivum Bobiense, ed alle iniziative culturali connesse al servizio del territorio abbaziale e diocesano di Bobbio e della Valtrebbia. Ed ancora ringrazio la gente di questa valle che mi ha dato prima la vita poi indirettamente la possibilità di accedere alla cultura e rappresenta con la sua storia e il suo patrimonio culturale non solo un campione di studio ma un interlocutore costantemente presente, vivace ed esigente".