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Domenica 14 Settembre 2003 - Libertà

Il contadino missionario

Partito da Carpaneto, dal '90 è in Uganda

Quali grandi cose può fare una persona semplice? Roberto Gandolfi, contadino cinquant'enne, ha lasciato i suoi campi verdi e ben coltivati nei pressi di Gropparello ed è partito 13 anni fa alla volta dell'Uganda, nella desertica regione del Karamoja, al nord del Paese, ai confini con Sudan e Kenya. Doveva rimanere sei mesi. Oggi è ancora là, responsabile coordinatore dell'officina dei miracoli dell'ospedale di Matany. Due piccoli occhi azzurri che brillano dall'alto del suo metro e 94 centimetri. Roberto Gandolfi è l'incarnazione della persona semplice, il ritratto della persona buona; con il fratello Angelo rispolvera il dialetto piacentino di Gropparello e dintorni; davanti al cronista parla con una lentezza e pacatezza a metà tra le esternazioni di Dino Zoff ed il ritmo della giornata africana. E'a Roberto Gandolfi che questa mattina sul sagrato del duomo di Piacenza la Fondazione di Piacenza e Vigevano consegnerà l'Angil dal Dom, il riconoscimento che ogni anno va a chi a portato il nome di Piacenza all'estero. "Ho saputo dell'Angil dal Dom tre mesi fa giù in Uganda. Ad avvisarmi è stata una lettera di Mario Tondini. La prima cosa che ho pensato è che sicuramente ci sono persone che se lo meritano più di me". "Io in Uganda ho portato le mie poche cose - continua Gandolfi, per tutti "Robertone" - quel poco che so fare per dare una mano. Certo io sono cristiano, sono credente: se non lo fossi stato sicuramente non sarei rimasto laggiù, ho visto parecchia gente scendere con l'entusiasmo di aiutare ma non basta. Poi viene un momento in cui si decide di andare via. Perché le difficoltà sono tante ed i risultati pochi. Se non ci sono risultati che cosa ci sto a fare qui? Ma uno che crede sa che ci sono cose più importanti". Così lei è rimasto. Ma come ha deciso di partire? "Ho sempre avuto il desiderio di andare ad aiutare in Africa. Pensavo: se fossi libero e senza impegni andrei anch'io laggiù a dare una mano. Avevo seguito conferenze che si tenevano nelle parrocchie con le testimonianze dei missionari. Poi, insomma, laggiù c'era della gente che aveva molto bisogno, io sono cristiano e il Vangelo in cui io credo mi ha chiamato. E'inutile. Se si crede in una cosa bisogna andare". Anche a costo di sacrifici? "Io avevo l'impegno della cascina: mio padre diventava vecchio e c'era da lavorare assieme a mio fratello Angelo per aiutarlo. Ma ad un certo punto la vocazione è stata troppo forte. Devo ringraziare anche mio fratello Angelo che mi disse di fare quello che mi sentivo e di sentirmi libero. Così, tramite don Piero Maggi, entrai nei volontari di don Vittorione ed in Africa Mission. Un anno di preparazione nella casa per esercizi spirituali di Ziano poi la partenza. Pochi giorni prima del 12 novembre del 1990 arriva la telefonata". Chi era? "Don Vittorione (uno dei fondatori di Africa Mission ndr.)! "Sei pronto?" Mi urlò dall'altra parte della cornetta. Io gli rispondo, un po'titubante, che avevano seminato ma dovevamo fare ancora i canali. "Dai, dai, il 12 partiamo"". Così Roberto Gandolfi il 12 novembre 1990 prese il primo aereo che lo portò a Roma assieme a Vittorione. La tappa servì per andare a recuperare altri due volontari e poi giù sino a Kampala, capitale dell'Uganda. Sei mesi nel quartier generale dove vengono smistati gli aiuti per le missioni nel nord del Paese e poi il trasferimento al "fronte" tra le popolazioni poverissime e decimate dalla carestia nel Karamoja. "Sono stato con don Vittorione cinque anni sino alla morte, nel '95, del sacerdote. Poi sono tornato in Italia per qualche mese. A Moroto, nel quartier generale di Africa Mission, facevamo un po'di tutto: aiutavo nel dispensiario, nel centro per i bambini malnutriti; avevamo attivato un mulino, un'officina per riparare gli aratri ed una scuola di taglio e cucito per le donne. Nei due campi che curavamo facevamo vedere ai bambini come si coltivavano i fagioli, i pomodori". Anche strade: quella che porta da Moroto a Lopotuk porta la firma di Roberto Gandolfi. Alla morte di don Vittorione la strada imboccata prende una svolta anche se alla fine non sostanziale. Robertone alla fine rimane in Uganda, in Karamoja, ad aiutare le popolazione africane. Si sposta di soli quaranta chilometri da Moroto a Matany, nell'officina dei miracoli al servizio dell'ospedale dei comboniani. Continui lei. "Tramite il Cuamm, con il dottor Pierluigi Rossanigo, di Pavia, sono arrivato a Matany l'ospedale sperduto nella savana. Da allora mi occupo dei mezzi, degli edifici e di tutto l'ospedale. Nell'officina lavorano un'ottantina di persone tutti neri del posto. All'inizio con me c'era un fratello comboniano. Poi i missionari sono sempre meno, così mi hanno fatto coordinatore. Qualche volta arriva qualche volontario dall'Europa, soprattutto elettricisti, muratori, fabbri, falegnami, che stanno giù un mesetto, insegnano ai nostri ragazzi il mestiere e poi vanno via". Non solo un'officina, dunque, ma anche una sorta di centro di formazione professionale e di avviamento al lavoro. Non è così? "Certamente. I nostri ragazzi vengono mandati in giro per le missioni a fare i piccoli lavori per cui serve personale specializzato. Sono soprattutto gli elettricisti che oggi hanno imparato e sono i più esperti. Ma l'officina di Matany è anche specializzata in energia solare". In che senso? "In seguito alle molte donazioni di pannelli solari che sono arrivate alle missioni, lo sfruttamento del sole come fonte di energia è decisamente utilizzato nelle missioni del Karamoja. Nello stesso ospedale di Matany l'energia incamerata dal sole durante il giorno dagli speciali pannelli posti sul tetto ci consente di far funzionare per tutta la notte la sala operatoria che durante le ore diurne funziona invece con un generatore. Proprio mentre io sono a Piacenza a Matany è arrivato un tecnico dall'Austria che sta tenendo un corso di un mese per utilizzare i pannelli ad energia solare". Che cosa è cambiato in Roberto Gandolfi da Moroto a Matany? "Da volontario laico sono entrato ufficialmente nell'ordine dei comboniani sempre come laico. E'stato tre anni fa. Mi avevano chiesto se volevo diventare fratello ma c'era da studiare ed io ho fatto solo la quinta elementare... Così ho pregato i padri della congregazione di lasciarmi laico; fin lì c'arrivo, mi sento più a mio agio". Com'è la vita all'ospedale? "L'ospedale di Matany è stato fondato 38 anni fa dai comboniani. Vi lavorano medici provenienti da tutte le parti del mondo. Oggi c'è un'americano in pensione che faceva il medico in Vietnam nell'esercito degli Stati Uniti ed è venuto a finire la sua carriera da noi. Dove si trova bene perché il venti per cento degli uomini ricoverati arriva con ferite da arma da fuoco. Per lui è un ritorno alla gioventù e nello stesso tempo insegna il mestiere ai dottori africani. Quello di Matany è il più grande ospedale della zona". Come è cambiata l'Uganda ed il Karamoja negli ultimi 13 anni? "Cominciamo da Kampala. Le strade sono pulite e senza più buche, gli edifici cadenti sono stati ristrutturati o abbattuti e costruiti di nuovi, le automobili sono belle e nuove, il traffico ricorda molto quello di Piacenza, la gente, tutto sommato, lavora. Andando verso il nord, in Karamoja, è rimasto tutto come allora. Anzi dal punto di vista della sicurezza e della pace sociale la situazione è peggiorata. I passi avanti sono stati fatti nell'istruzione, nella sanità. All'ospedale di Matany, ad esempio, cominciano ad esserci i karimonjon che lavorano come infermieri. Prima invece c'erano uomini provenienti da altre tribù perché in Karamoja non c'era istruzione. Oggi ci sono karimonjon all'università di Kampala e qualcuno è finito anche in parlamento. Solo che molti di questi passi avanti vengono vanificati dal problema della sicurezza. Noi dobbiamo uscire da Matany agli orari giusti se no si cade vittima delle imboscate. Come fate? "Ci muoviamo solo di notte, appena prima dell'alba. Partiamo alle 4 del mattino ed arriviamo a destinazione prima di mezzogiorno. Tutto il resto della giornata è troppo pericoloso. La gente è armata, le tribù dei karimojon hanno i fucili e si sparano l'una con l'altra per rubarsi il bestiame. C'è l'esercito che dovrebbe proteggerci ma non sempre è possibile. Io stesso sono stato bersaglio di un'imboscata mentre ero alla guida di un'ambulanza. Seduto accanto a me c'era l'amministratore dell'ospedale che è stato colpito alle gambe. Io invece sono stato fortunato ed il Signore mi ha protetto. Un'altra volta mi hanno rubato le bibite che stavo portando ad una missione del nord. Ciò nonostante dentro le missioni e dentro l'ospedale i guerriglieri non arrivano. Paradossalmente hanno rispetto e sanno che noi li possiamo aiutare. A differenza di quanto avviene nella regione di Gulu con i ribelli del Lord Resistance Army che si oppongono all'esercito del presidente Museveni. E'così? "Certo. Ed è notizia di pochi giorni fa che questi ribelli si trovano accampati a soli 70 chilometri da Matany, pronti ad attaccarci. Chi ci salva sono proprio i karimonjon che non vogliono questo accada e che altri arrivino del loro territorio. Tempo fa i ribelli saccheggiarono il lebbrosario di Morulem e rapirono 40 ragazzi. I karimonjon intervenirono uccidendo i ribelli e riportando a casa sani e salvi 38 dei 40 rapiti. Che cosa le hanno insegnato 13 anni di Uganda? "A lamentarsi poco ed a vivere con quel poco che si ha: quando c'è la salute ed il pane per sè e per la propria famiglia, l'uomo è già ricco così. Tutte le altre cose non hanno importanza. Forse potrà sembrare poco, ma questo me lo hanno insegnato la vita e la morte che vedo tutti i giorni in Karamoja".

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