Venerdì 14 Novembre 2003 - Libertà
Vittorio Volpi racconta: i miei trent'anni nel paese del Sol Levante
Stasera alle 21 in Fondazione - Presentazione e dibattito sul libro "Giappone, L'identità perduta" scritto dal presidente dell'Ubs Italia
Dopo aver vissuto per quasi trent'anni in Giappone, sento il bisogno di guardare indietro, verso gli anni trascorsi, ma anche avanti, verso quello che sarà il futuro di una società e un Paese che mi hanno regalato ricordi indimenticabili, esercitando sempre su di me un autentico fascino.
Non occorre neppure sottolineare il forte attaccamento che mi lega a Milano, la città dove sono nato e in cui ho trascorso gran parte della mia infanzia e giovinezza.
Tuttavia, non esagero di certo dicendo che il Paese del Sol Levante, questa affascinante terra dell'Estremo Oriente chiamata Giappone, è diventato con il tempo la mia seconda patria.
Quando sono arrivato in Giappone per la prima volta, nel 1972, l'economia giapponese era'ancora tesa allo sforzo di mettersi al passo con l'Occidente: già l'anno successivo, il Giappone riusciva a superare meglio di qualunque Paese occidentale la prima crisi petrolifera e a metà di quel decennio era già assurto al ruolo di seconda potenza economica mondiale, dopo gli Stati Uniti.
Chalmers Johnson, analista politico americano e direttore del Japan Policy Research Institute, ha definito il modello di crescita economica del Giappone come un a "economia di mercato soggetta a una pianificazione burocratica", lanciando il ben noto concetto di "japan Inc.": un'entità in cui Stato e imprenditoria privata operavano in stretto contatto nella creazione di un fertile terreno per un'ulteriore espansione dell'economia e del commercio. Questo e altri modelli gestionali, appartenenti esclusivamente al mondo giapponese, sono diventati ben presto fenomeni di successo che il mondo ha osservato con enorme interesse. In molti Paesi, vari studi dedicati all'economia hanno riconosciuto la sostanziale "vittoria" del Giappone nella competizione economica del dopoguerra. Nel 1979, Ezra Vogel, docente presso l'Università di Harvard, pubblicò il suo trattato Japan as Number One. Lessons for America, destinato a diventare un classico del settore. Effettivamente, nella seconda metà degli anni Ottanta, il Giappone sembrava sul punto di diventare il numero uno al mondo e la sua ulteriore ascesa verso il dominio assoluto dell'economia globale sembrava non dovesse incontrare ostacoli insuperabili.
E in quegli anni, tuttavia, che gli attriti commerciali tra Giappone e Stati Uniti divennero un punto caldo nei negoziati bilaterali, con continue e difficili trattative riguardanti automobili, computer, semiconduttori, prodotti agricoli eccetera. Queste frizioni tra un Giappone avviato a diventare il numero uno e un'America arroccata sulla difensiva apparivano pressoché inevitabili. La maggior parte dei giapponesi interpretò questi avvenimenti come la prova di un'America in difficoltà, che cercava con ogni mezzo di resistere all'ulteriore espansione della loro potenza economica.
Eppure, proprio in quel periodo, si assistette a un vero e proprio capovolgimento della situazione. La "bolla" in continua espansione dell'economia giapponese scoppiò con grande fragore e il Paese cadde improvvisamente in una spirale deflazionistica del tutto imprevista. I prezzi delle azioni precipitarono con una rapidità impressionante, crollando dal massimo raggiunto nel dicembre 1989 a meno di un terzo. L'indice Nikkei al suo massimo storico aveva raggiunto i 40.000 punti, mentre oggi è attorno ai 10.000. Come non bastasse, il prezzo dei terreni, che aveva creato le basi della fulminea crescita economica giapponese, scese a livelli da minimo storico, mettendo alle corde il sistema bancario.
Il crollo dei prezzi dei terreni e delle azioni condusse a un decremento generale dei prezzi dei prodotti di base e al rallentamento dei consumi privati. Le condizioni operative delle grandi aziende peggiorarono drasticamente e i loro leader incominciarono a nutrire serie preoccupazioni per il futuro delle loro società. Dopo la prosperità e l'ottimismo che avevano apparentemente segnato l'avvento dell'epoca Heisei (corrispondente al regno dell'attuale imperatore del Giappone Akihito, è iniziata nel 1989), l'economia giapponese sembrava incapace di uscire dalle sabbie mobili in cui era precipitata.
Neppure i più ottimisti tra gli osservatori potrebbero sostenere che l'economia giapponese sia ora completamente uscita dal tunnel. Non a caso, infatti, il consiglio dei ministri del governo di Keizo Obuchi, insediato nell'estate del 1998, ha posto l'accento sul ritorno a una crescita positiva dell'economia, obiettivo in assoluto modesto ma, nelle condizioni del Paese, ambizioso e meritevole di attenzione. Allo stesso modo, il consiglio dei ministri del successivo governo di Yoshiro Mori ha posto in cima alle priorità d'intervento il recupero di una crescita economica stabile e consolidata. Neppure l'attuaIe governo guidato da Junichiro Koizumi, dal cui idealismo e grande popolarità ci si aspettavano riforme e ripresa, ha ottenuto molto. Come ha sottolineato di recente Rudy Dornbusch, noto economista e docente della prestigiosa Università di Boston MIT, "si è limitato a far togliere i posacenere dalle sale riunioni, come grande riforma strutturale...". La sua popolarità è in rapida discesa e le riforme languono. La stia scarsa base elettorale non gli consente quelle decisioni fondamentali e coraggiose di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il governo ha lavorato intensamente per stimolare la domanda interna, salvaguardare il sistema finanziario e ripristinare un robusto sviluppo dell'economia, a costo di dover permettere un incremento, almeno temporaneo, del disavanzo fiscale, per poter iniettare liquidità in un'economia ancora in difficoltà. In Giappone si è parlato di una "politica fiscale innovativa", che in realtà si basava sulla tacita accettazione di deficit di bilancio sempre più imponenti. Nonostante tali misure, tuttavia, i consumi interni sono rimasti stagnanti mentre i risparmi privati hanno continuato a mantenersi a livelli eccezionalmente alti. Nella primavera del 2002 non è ancora in atto una piena ripresa economica, e anche i segnali più incoraggianti registrati nell'estate del 2001 sono rimasti deboli e non del tutto convincenti.
Come recita il proverbio: "Dove la voglia è pronta, le gambe son leggere". In Giappone sono stati compiuti enormi sforzi per stimolare il potenziale economico, eppure, in mancanza di adeguate riforme strutturali, non basteranno a far sì che scatti la voglia. Il Giappone vuole veramente uscire dal pantano in cui si trova e ridare impulso alla propria economia? Osservando la situazione attuale, si direbbe che non esiste altra scelta. La domanda che oggi si pone la maggior parte dei giapponesi è: "Insomma, che cosa dovremmo fare e quali sono le scelte possibili?".
Ho scritto questo libro con la speranza di offrire. alcune idee su come l'economia giapponese possa effettivamente avviare nel nuovo secolo una ripresa autentica e a lungo termine. La critica cui sottopongo alcuni elementi dei sistema giapponese riflette soltanto la mia profonda preoccupazione per il futuro di questo Paese, che sento come la mia seconda patria. Analogamente, le proposte e i suggerimenti che presento in questo libro nascono dalla speranza che il Giappone sappia, come deve, recuperare la propria vitalità ed entrare brillantemente nel nuovo secolo. Vorrei domandare nuovamente: "Che cosa dovrebbero fare i giapponesi?". La risposta a questo difficile interrogativo esiste sicuramente, ma soltanto i giapponesi possono trovarla. Alla fin fine, sono i giapponesi in prima persona che devono individuare le soluzioni giuste per i loro problemi e agire di conseguenza.
(tratto dalla prefazione dal libro "Giappone, L'Identità perduta" della Sperling&Kupfer Editori)
VITTORIO VOLPI