Giovedì 29 Aprile 2004 - Libertà
Piacenza nella Resistenza: tutti i caduti partigiani e civili
Il volume di Giorgio Cassinari rievoca alcuni episodi della Resistenza e riporta una breve biografia delle 860 vittime del conflitto civile
Il libro "Piacenza nella Resistenza" (Tep Edizioni) di Giorgio Cassinari è stato presentato nei giorni scorsi alla biblioteca Passerini Landi in occasione delle celebrazioni per l'anniversario della Liberazione. Pubblichiamo di seguito un approfondimento di Giorgio Fiori, che del libro ha eseguito la revisione storica.
Fin dall'autunno del 2001 è uscita l'opera di Mario Pavesi "Piacenza nella R.S.I." con l'elenco dei caduti nel Piacentino, militari e civili, aderenti alla Repubblica di Salò; un'opera che, malgrado il tono decisamente fazioso e fuori tempo, sia del suo autore, peraltro morto da molti anni, che dei suoi curatori, e le inevitabili omissioni e i giudizi opinabili, è risultata di notevole interesse storico e documentario; infatti mi fu assai utile quando composi il volume "Storia di Piacenza tra il 1885 e il 1946", uscito nel 2002.
Mancava invece un'opera analoga, anche di segno e possibilmente di tono diverso, che illustrasse i caduti partigiani e civili della Resistenza, tanto che nel mio lavoro fui in grado di fornire maggiori e più dettagliate informazioni appunto solo sui caduti della parte avversa.
Non è che manchi la pubblicistica partigiana, in genere però di tipo memorialistico, ma le sue opere più importanti, ormai non più recenti, sono bisognose di revisione, di completamento e di aggiornamento, fatte con ben altri criteri, diversi dalla ripetuta e scontata glorificazione della parte vincente e della condanna senza attenuanti di quella soccombente e di tutti coloro che, per una ragione o per l'altra, erano rimasti ad essa legati fino al termine della guerra civile, con motivazioni degne di rispetto non inferiori a quelle di chi aveva invece fatto, magari dopo un'esperienza di segno opposto, la scelta più fortunata.
Si comincia solo ora a capire che i contendenti di entrambe le parti hanno intravisto l'interesse della Patria, come bene primario da conseguire, dall'una e dall'altra parte, trascurando magari altri aspetti pure rilevanti quali le scelte antidemocratiche della Repubblica Sociale e della Germania nazista, con cui peraltro eravamo stati legati da una comune alleanza, durata fino al fatidico 8 settembre 1943, che in realtà solo la ormai evidente sconfitta aveva posto in discussione.
Un gran numero di militari e di cittadini aveva tra il 1940 e il 1943 sacrificato la sua esistenza, generalmente in giovane età, non tanto a difesa del regime fascista - che aveva manifestato tutti i suoi limiti e si era macchiato di gravi colpe, quali la soppressione della democrazia e la persecuzione razziale - ma della comune patria italiana. Vi era una profonda e non certo immotivata convinzione di tutti - l'opposizione essendo ridotta ad un numero sparuto di esuli e di critici interni - che la difesa di essa doveva prevalere rispetto anche alle altre pur validissime esigenze quali appunto la democrazia ed il rispetto dei diritti civili di tutti i cittadini indistintamente.
Proprio la necessità della difesa del territorio nazionale, invaso dalle truppe anglo-americane, ora divenute alleate, ma che molti avevano continuato a ritenere nemiche, non riuscendo ad accettare il repentino cambiamento di fronte, aveva indotto buona parte dei futuri combattenti della R.S.I. - sbalorditi dalle notizie inaspettate e dal comportamento della monarchia, unica fonte di vera legittimità formale e costituzionale, ma ora ritenuta traditrice dell'alleanza, per il passaggio e la fuga nel territorio ormai in mano agli ex nemici a ritenere di dovere tenere fede all'antico patto, anche se la guerra era ormai perduta sul campo di battaglia, ignorando peraltro i crimini di cui il regime nazista si era macchiato.
D'altra parte non si poteva neppure pretendere che la maggior parte dei combattenti si trasformasse di colpo in esperta di diritto costituzionale, le cui sottigliezze anche una parte degli uomini di cultura non aveva avvertito, tanto da rimanere tenacemente legata ai precedenti ideali, pagando talora per essi anche con la vita, come accadde infatti ad alcuni dei suoi più qualificati esponenti.
Vi era poi un gran numero di militari rastrellati dai tedeschi sui vari fronti di guerra e rinchiusi nei campi di concentramento, la cui principale esigenza era quella di tornare a qualsiasi prezzo in Italia, rimanendo poi bloccati nel nord del paese e con una divisa che diventava sempre più scomoda, ma che era ormai difficile abbandonare; nelle stesse condizioni erano le molte migliaia di giovani di leva che non avevano la possibilità di nascondersi, né di rifugiarsi in montagna, né quei militari, poliziotti, carabinieri, talvolta con carichi familiari, che traevano il loro sostentamento da una professione ora pericolosa, che li esponeva ai colpi di chi aveva potuto scegliere la parte opposta; mentre invece tanti impiegati, insegnanti ed operai che pure erano rimasti al servizio della Repubblica Sociale, potevano non solo conservare senza rischi il loro posto di lavoro, ma farsi addirittura passare poi per antifascisti.
Sull'altra sponda moltissimi avevano avuto la possibilità di rimanere in montagna, per esservi nati, o per avervi trovato appoggi e rifugi. Per essi tale opportunità, unita al desiderio di opporsi al redivivo regime fascista ed al suo alleato tedesco, ora piuttosto percepito come invasore e nemico della patria, che desideravano salvare dall'ultima rovina, era stata la causa della diversa scelta di campo, oltre al rifiuto di combattere una guerra che ormai appariva chiaramente perduta; la scelta democratica veniva certo in secondo piano e non era certo generalizzata, perché essa era estranea ai convinti fautori del comunismo, cioè di un regime non meno autoritario di quello che desideravano rovesciare.
I giovani di entrambi gli schieramenti avevano tutti valide ragioni per le loro scelte, spesso dettate da necessità e situazioni contingenti; d'altra parte nei conflitti tra i popoli ed ancor più in quelli civili non esiste chi ha in assoluto ragione, ma ognuno ritiene giusta la parte per cui combatte; la storia poi fatalmente riconosce che una delle due parti ha vinto la partita, e che le ragioni da essa portate avanti hanno finito per prevalere.
La parificazione delle due parti e dei combattenti dei due schieramenti non garba però alla parte vincente che trae ragione ancora oggi di vanto e di compiacimento proprio nel criticare quella perdente ed i suoi seguaci, ritenuti passibili di disprezzo e punizione; chi pone in discussione questa opinione di comodo è tacciato di revisionismo, termine il cui esatto significato, comunque oggetto di critica, è però difficilmente precisabile. Né si può dimenticare che la storiografia è comunque revisionista, altrimenti sarebbe copiatrice e perciò priva di obiettività e di interesse. Si può perciò credere che a tutti gli effetti debbano essere rispettate le scelte fatte nei campi opposti anche se la tardiva e inutile riconciliazione, d'altronde neppure desiderata, sarà ormai operata solo dall'anagrafe.
Tutto ciò premesso, è ovvio che la storiografia attuale e futura, che deve rivolgersi non tanto ai combattenti di un campo o dell'altro, ma anche alle generazioni che sono e saranno non solo di fatto, ma anche emotivamente, lontanissime da episodi ormai vecchi di almeno sessanta anni (e poi ancora di più), deve usare termini, toni e giudizi di fondo ben diversi da quelli consueti dei reduci.
Per fortuna una decisa inversione di tendenza storiografica comincia a manifestarsi. Le principali caratteristiche di ciò, che sono non solo formali, ma sostanziali, sono il rispetto equidistante per i combattenti di entrambi gli schieramenti e la non partecipazione emotiva agli avvenimenti narrati, pur non facendo mancare con imparzialità ed equilibrio giudizi e critiche su fatti e personaggi colpevoli di errori ed eccessi inescusabili; da un punto di vista formale perciò non si usano più i termini spregiativi della storiografia partigiana, di entrambi i fronti, quali "banditi, briganti neri, repubblichini, fascisti e nazisti", che ora vengono correttamente sostituiti dai più pertinenti "partigiani, brigatisti, repubblicani e tedeschi".
L'uso di una terminologia diversa è di per se stesso squalificante sotto il profilo dell'obiettività storiografica, che non rifugge dall'illustrare e criticare senza alcuna remora fatti e personaggi su cui la storiografia di parte ha steso finora un velo di interessato silenzio o che ha deliberatamente minimizzato, limitandosi poi a pronunciare solo durissime condanne sull'operato, talvolta effettivamente anche criminale, di militanti della parte avversa. Nello stesso modo si cerca di individuare l'esatto numero delle perdite dei combattenti di entrambi gli schieramenti e non si riportano, come generalmente succedeva in passato, le cifre spesso moltiplicate e gonfiate per ragioni propagandistiche, dei caduti del fronte opposto a quello per cui emotivamente si parteggia o addirittura si è anche combattuto.
Sono di recente comparse pregevoli opere che si distinguono per tale indispensabile e nuova obiettività, anche territorialmente vicino a noi; esse narrano senza reticenze i fatti e i misfatti di entrambe le parti del conflitto che, senza ridicole remore, viene giustamente definito "guerra civile", proprio perché non si può ignorare che, anche se in Alta Italia la maggioranza della popolazione parteggiava più o meno apertamente per i partigiani, moltissime erano ancora le persone schierate militarmente o politicamente sul fronte opposto.
Così come non si può certo disinvoltamente dimenticare che i membri di tantissime famiglie, i cui esponenti, per una ragione o per l'altra, militavano nelle forze poliziesche o militari della R.S.I. non potevano certamente simpatizzare per coloro che si battevano contro di loro.
In mezzo poi stava una numerosa massa attendista e non motivata in nessun senso, che attendeva solo la fine della guerra; tra di essa non pochi insegnanti, impiegati, operai e dirigenti statali che erano tutti rimasti ai loro posti di lavoro e che avevano ricevuto gli stipendi dalla R.S.I. senza poi correre i rischi né affrontare la resa dei conti a cui furono chiamati i militari, carabinieri e poliziotti, il cui dovere non consisteva nello svolgimento dei compiti burocratici negli uffici e nelle fabbriche statali, ma nel perseguire militarmente gli aderenti al campo resistenziale.
A tale indirizzo storiografico nuovo ho voluto uniformare la mia opera sulla "Storia piacentina" del controverso periodo bellico e devo dire che essa ha avuto il plauso, assai apprezzato, degli esponenti di entrambi gli schieramenti contrapposti; così pure sono certo che non mancherà a questa opera che elenca tutti i caduti partigiani e civili.
Come già si è detto, per la sua realizzazione era indispensabile trovare una persona che, con infinita pazienza, esaminasse non solo tutti i documenti e le schede anagrafiche conservate nella sede dell'ANPI di Piacenza, ma facesse anche un adeguato controllo presso gli uffici anagrafici dei Comuni, un lavoro pesante ed ingrato che finora aveva tenuto lontano anche le persone di buona volontà. Come sempre, però, è stata la necessità che ha creato la soluzione del problema, e finalmente si è trovato il cireneo che si è assunto questa impresa nella persona del dottor Giorgio Cassinari, classe 1930, geologo in pensione, che è stato in ragione della sua età solo testimone di alcuni episodi della guerra civile o comunque ne è stato immediatamente informato.
Bene ha fatto quindi l'autore a ricordarli in questa sede, cogliendone la giusta opportunità, anche perché utilmente si integrano con la seconda parte dell'opera che riporta, assieme a schizzi topografici e ad utilissimi riassunti statistici e comparativi delle perdite sia dei partigiani, che dei repubblicani e dei civili, in ben 860 schede, i dati biografici degli stessi partigiani e civili caduti, con un racconto efficace anche se sintetico, delle circostanze della loro morte, dando anche notizia delle eventuali decorazioni da essi ricevute, evitando peraltro i commenti superflui e le versioni "eroiche" dei combattimenti e delle circostanze della loro morte, come invece si è ancora visto nell'opera di Pavesi e in quelle di tanti partigiani.
La redazione dell'opera ha comportato, oltre al notevole impegno di tempo, la necessità di superare vari imprevisti problemi, relativi alla qualifica di partigiano o di civile, perché ci si è resi conto che non poche persone ragionevolmente attribuibili alla seconda categoria, sulla base della documentazione presso l'ANPI, si sono dovute comunque elencare come appartenenti alla prima. Ciò è attribuibile al fatto che nell'immediato dopoguerra ai partigiani combattenti ed alle famiglie di quelli caduti fu elargito un premio in denaro, in quei tempi di necessità assai apprezzato. Bastava trovare qualche comandante partigiano che per amicizia, compiacenza o altro, si prestasse a dichiarare che il defunto era stato un militante o un collaboratore dei partigiani ed il gioco era fatto; così lo schedario dell'ANPI si è trovato non immune da queste assai poco credibili dichiarazioni, di cui però ai fini dell'elencazione in quest'opera, si è dovuto tener conto; nei casi veramente assai dubbi, pur riconoscendo ai caduti la qualifica di partigiano, si sono ricordate le ragioni che la fanno ritenere almeno discutibile.
Tali episodi non dovettero neppure essere troppo rari e riguardavano certo più i vivi che i morti: sono ben noti i casi di due persone decorate, l'una unicamente su istanza di un partito politico, l'altra per compiacenza di un comandante partigiano che attestò che un esponente politico, a cui doveva gratitudine, aveva meritato una prestigiosa decorazione, che comportava anche un sostanzioso premio vitalizio, per una impresa, peraltro non particolarmente rischiosa, a cui d'altronde il beneficiario non aveva neppure direttamente partecipato, venendone solo informato, ad azione terminata, da coloro che effettivamente l'avevano eseguita, ma che, con loro sommo stupore ed indignazione comprensibili, non ricevettero poi alcun riconoscimento.
E' parimenti noto il caso di un altro comandante che diede l'attestazione di militanza partigiana all'anziana madre ed alla mitissima sorella, nonché alla giovanissima fidanzata, probabilmente conosciuta solo al termine del conflitto, ma che le circostanze gli imponevano di sposare. In questo caso non ci furono decorazioni, ma non mancò il premio ed il punteggio preferenziale per i concorsi statali, unitamente ad un rimborso spese per danni provocati dagli avversari, in realtà mai ricevuti. Né sono mancati quelli che si sono fatti passare per invalidi di guerra, ricevendo adeguate pensioni, ma per malattie in realtà congenite o per incidenti casuali.
L'albo della gloria ricorderà in un futuro anche la combattente sopra menzionata, come lo furono probabilmente molte altre legate sentimentalmente, prima o dopo il conflitto, a qualche intraprendente partigiano, mentre altri forse, per spirito di amicizia o per altre considerazioni, si erano mostrati egualmente benevoli verso parenti e conoscenti, che poterono partecipare, oltre che alla gloria, alla piccola ricompensa postbellica.
Per fortuna questa opera non era la sede preposta per separare le verità dalle menzogne, almeno per quanto riguarda le persone sopravvissute al conflitto. L'autore di essa ha già infatti faticato anche troppo, tenuto anche conto della scarsa collaborazione prestatagli da alcuni uffici anagrafici preposti.
Per mole e per impegno di tempo, oltreché per l'obiettività del racconto e del tono usato, essa è una delle più importanti realizzazioni resistenziali piacentine; pertanto gli studiosi piacentini devono fin da ora essere grati a Giorgio Cassinari per averla intrapresa e portata a termine, con serietà, competenza e correttezza; e così pure all'ANPI, nella persona del suo Presidente, Lodovico Muratori, che ne ha promosso la pubblicazione, alla Fondazione di Piacenza e Vigevano, che l'ha finanziata e all'editrice TEP che l'ha curata.
Dato che si è ora in possesso dei dati relativi ai combattenti di entrambi gli schieramenti, l'opera sarà poi auspicabilmente seguita da una nuova specifica storia della Resistenza piacentina con le stesse caratteristiche di serietà, moderazione, imparzialità ed obiettività che contraddistinguono quelle decisamente monumentali che già sono apparse in alcune città vicine, ed in particolare a Pavia, ad opera di Giulio Guderzo; sarà pertanto un lavoro che per la sua importanza e complessità
dovrà essere affidato alle cure di qualche studioso di livello universitario, con la supervisione di un comitato locale composto da persone di accertata serietà e di inflessibile severità ed imparzialità; così andrà in porto un altro notevole tassello nel complesso mosaico della storiografia moderna piacentina.
GIORGIO FIORI