Domenica 29 Febbraio 2004 - Libertà
Stasera col suo quintetto di scena al President
Jazz Fest. Tommaso: "Io e Lacy suonatori notturni"
"Da ragazzino ero un pessimo scolaro: imparai molto presto a "svicolare" dalle lezioni e dallo studio. In queste ore di libertà il mio più grande svago erano i film: il mio migliore amico era figlio di un amministratore di un cinema, e con lui potevo entrare gratis alle proiezioni. Cominciai così a fare vere scorpacciate di celluloide: erano i primi anni '50 e restavo ipnotizzato dai grandi film italiani e americani dell'epoca, i francesi già allora mi piacevano meno. Un mondo in cui mi ritrovai immerso alla fine degli anni Sessanta, quando arrivai a Roma e iniziai a suonare da turnista per le colonne sonore di Ennio Morricone. Ho lavorato più volte anche con un regista che per il jazz ha una grande passione, Pupi Avati: sarò io a comporre le musiche per Quando arrivano le ragazze, il suo prossimo film incentrato sulla giovane scena jazz italiana". Questa professione di fede cinefila è Giovanni Tommaso, il grande contrabbassista che alla guida del suo quintetto ("Una band fantastica, con strumentisti di primissimo piano che sanno trasformare in vero jazz qualsiasi tema di partenza", proclama il leader, e a ragione: i nomi sono quelli di Luca Begonia al trombone, Antonio Faraò al pianoforte, Massimo Manzi alla batteria e il talentuosissimo Davide Scannapieco al sax tenore) aprirà stasera alle 21.15 il primo Piacenza Jazz Fest, il festival organizzato dal Piacenza Jazz Club in collaborazione con gli assessorati alla cultura, alle pari opportunità e alla formazione del Comune, la Fondazione di Piacenza e Vigevano ed Editoriale Libertà). Primo assaggio di un cartellone "da urlo", il concerto del Giovanni Tommaso Quintet avrà luogo al cinema teatro President: una scelta felice, perché "Progetto Cinema" è il titolo di questo spettacolo, che attinge a La dolce vita e Secondo tempo, gli album di improvvisazioni jazz su colonne sonore ideati da Tommaso per l'etichetta Cam. "La dolce vita" fu inserita dai critici Usa nella top ten dei dischi jazz più belli del 2002. Che effetto le ha fatto? "Quasi non riesco ancora a crederci: era un disco che in Italia non aveva nemmeno venduto tantissimo. La Cam ha dovuto ristamparlo immediatamente, farne molte nuove tirature. E' stato bellissimo vedermi oggetto di tanta stima in America, il Paese dei miei sogni di ragazzo, dove andai a 18 anni nel 1959 a passare più di un anno. Fu la mia vera educazione: incontrai Lennie Tristano, John Coltrane e il contrabbassista Paul Chambers, uno dei miei idoli". Gli altri quali sono? "Il primo è Ray Brown, che sarebbe il rappresentante ideale di un'ipotetica Accademia del Jazz, intendendo la parola "accademia" nel senso migliore. Brown era il contrabbassista completo perché aveva tutto: la tecnica e il feeling, lo swing e il lirismo. L'altro mio eroe, all'estremo opposto, è Scott La Faro: questo ragazzo bianco, per giunta di origini italiane, che si inventava uno stile completamente nuovo ... Tra i contemporanei, il nome che viene in mente è Dave Holland". Che non è un ragazzino neanche lui. "E' vero. Ma confesso che i giovanissimi, anche quando sono molto bravi, non mi danno emozioni intense come quele che mi dà la vecchia guardia". Torniamo al suo apprendistato americano: una volta rimesso piede in Italia, lei suona nel quartetto di Lucca e nel 1967 arriva a Roma, entrando nella straordinaria scena "sperimentale" capitolina di quegli anni. Come ricorda i tempi in cui suonava con Steve Lacy? "Anni fantastici, che per molti di noi sono stati magici anche sul piano umano, esistenziale: certi notti stavamo a suonare e parlarci fino all'alba". Il suo nome, per tantissimi appassionati, è però legato soprattutto al Perigeo, il gruppo che lei fondò con Franco D'Andrea nel 1971 e che aprì alla "rivoluzione" del jazz elettrico rompendo le regole del purismo nostrano. "Il successo che ottenemmo, a pensarci, è qualcosa di incredibile. In certe esibizioni all'aperto raccoglievamo anche 19-20mila persone, che venivano lì solo per noi. Sa qual è il mio unico rimpianto, quando penso a quell'avventura?". Dica. "Non aver guadagnato in misura proporzionale al nostro successo. Allora c'erano i concerti gratuiti, perché tutti volevano la musica e nessuno voleva pagare. Non solo: a volte capitava che alla fine a pagare fossimo noi, perché il pubblico aveva provocato dei danni". Che ci vuol fare, era il bello degli anni Settanta. "A volte ci penso: con tutti quei concerti e quella gente, se avessimo preso allora una percentuale sul biglietto oggi saremmo ricchi. Ma ricchi ricchi...".
Oliviero Marchesi