Mercoledì 25 Febbraio 2004 - Libertà
Maraini: "La scrittura è un fatto collettivo"
Dacia Maraini sarà, domani sera, il prossimo ospite della rassegna Testimoni del Tempo all'auditorium della Fondazione di Piacenza e Vigevano, in via S. Eufemia 12. Dalla sua casa di montagna tra i boschi di Pescasseroli, all'interno del Parco Nazionale d'Abruzzo, che forse le ricorda, chissà, il sapore della neve che circondava la casa di Sapporo, in Giappone, dove ha vissuto con la famiglia i suoi primi 8 anni di vita, la scrittrice ci ha rilasciato questa intervista, in cui ripercorre "una vita tra storia e scrittura", come recita il titolo dell'incontro di venerdì.
Si dice che nell'infanzia si delinei la personalità di un individuo. Lei ha avuto un'infanzia molto particolare, in Giappone. Cosa le è rimasto di quegli anni?
"Tante cose, che credo poi si ritrovino nei miei libri. Soprattutto il cambiamento da una cultura all'altra, il passaggio da un mondo a un altro, che io credo di aver superato grazie ai libri. I libri sono stati un tramite, un modo attraverso il quale mi è stato addolcito questo passaggio, che altrimenti sarebbe stato troppo traumatico e sconvolgente".
Di quegli anni fanno parte anche i due anni passati nel campo di concentramento. Che segni le ha lasciato quell'esperienza?
"E' stata un'esperienza molto dolorosa e molto dura, che mi ha influenzato moltissimo. Adesso, dire fino a che punto, dove e quando non saprei, ma certo è stata un'esperienza molto drammatica, tanto più se si pensa che ero nel periodo della prima formazione, dai 6 agli 8 anni".
Tornati dal Giappone, siete andati a vivere in Sicilia, a Bagheria, dove lei rimasta fino ai 18 anni. Com'è stata la sua adolescenza in Sicilia. Un'altra esperienza particolare?
"Beh, sì, è stata un'esperienza forse anche difficile, dura, perché era un mondo molto lontano da quello da cui venivo e lontano dall'educazione che mi dava la mia famiglia".
Suo padre, Fosco Maraini, lo conosciamo come un uomo di grande cultura, di grande fascino e con una forte personalità. Sua madre, scopriamo dai suoi libri, era anch'ella una donna forte e coraggiosa. Cosa deve ai suoi genitori?
"Soprattutto l'esempio. Sono due persone che più che insegnare dei codici o delle precettistiche, cosa che non hanno mai fatto, lasciandomi sempre una grande libertà, hanno insegnato attraverso l'esempio. Io credo che la migliore educazione che dei genitori possono dare ai figli sia proprio l'esempio. E loro mi hanno dato un esempio molto alto, di grande rispetto verso gli altri, verso le culture diverse, un esempio di tolleranza. E poi mi hanno trasmesso molta curiosità, molta voglia di capire e di imparare sempre di più".
Lasciata la Sicilia e trasferitasi a Roma, lei è entrata giovanissima nell'ambiente letterario. E' una passione che le ha trasmesso suo padre?
"Non solo mio padre, perché la mia nonna paterna, la mia adorabile nonna Yoi, era una scrittrice. Scriveva romanzi e libri di viaggi, in inglese, perché lei era inglese. Quindi è una passione che mi viene proprio dalla mia storia di famiglia, da una tradizione familiare".
Nel suo libro "La nave per Kobe", in cui parla della sua famiglia, dominante, oltre a quello della memoria, è il tema del viaggio. E' un tema che ha contraddistinto anche la sua esistenza?
"Sì, direi proprio di sì. Anche il viaggio appartiene al DNA della mia famiglia. Mia nonna Yoi ha sempre viaggiato, era partita dall'Inghilterra nei primi del Novecento, da sola, per andarsene in viaggio in Persia (e allora una donna che viaggiava sola era una cosa abbastanza eccezionale). Mio padre, poi, non ne parliamo, ha scelto addirittura un mestiere che lo portasse in giro per il mondo, che è quello dell'antropologo. Quindi io ho sempre viaggiato e mi piace molto viaggiare. Però mi piace anche avere un punto di riferimento, non sono una nomade totale: sono una pellegrina che ha una casa in cui tornare, in cui fermarsi per molti mesi, in cui scrivere... Non potrei stare sempre in giro. Però ci sto molto".
Sempre ne "La nave per Kobe", parlando di viaggi, spesso lei nomina Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini. Che ricordo ha di loro?
"Si viaggiava molto bene insieme, perché erano due persone molto diverse, ma legate da questo amore per i viaggi, per la conoscenza. Soprattutto per i Paesi non industrializzati, per i Paesi più arcaici, più selvatici, dove c'è una natura molto intensa, dove l'uomo è quasi dominato dalla natura. Come i Paesi africani, o come i Paesi mistici e misteriosi dell'Oriente, come l'India e la Cina. C'era una grande voglia di conoscere mondi e culture diverse e infatti leggevamo moltissimo mentre viaggiavamo: i nostri erano sempre viaggi accompagnati da libri, perché ritenevamo (e io lo faccio ancora adesso) che quando si va in un Paese bisogna leggere i romanzieri di quel Paese, che dicono molto di più di qualsiasi guida".
Sempre in quel libro, lei racconta che da bambina cercava una strategia per fermare il tempo...
"Sì, siccome la balia mi diceva che io crescendo facevo invecchiare mia madre e che per crescere bisognava dormire, allora io non dormivo più".
E una strategia per fermare il tempo, poi, l'ha trovata nella scrittura?
"Il tempo, certo, non lo si può fermare, però lo si può rallentare, si può dargli un andamento ritmico più umano. Perché il tempo tende a essere precipitoso e brutale nella sua corsa e invece la scrittura, il progetto letterario che sta dietro a una storia, mi dà la sensazione che questo tempo prenda dei ritmi molto più profondi, meno accelerati e meno violenti".
I suoi romanzi e racconti hanno quasi sempre protagoniste femminili. Perché ha scelto questo punto di vista sulla realtà?
"Perché io sono donna e quindi mi identifico più facilmente con una protagonista femminile. Nei libri scritti da uomini, del resto, nel 99 per cento dei casi il protagonista è maschile. E se anche qualche volta gli uomini prendono per protagonista una donna, quasi sempre lo sguardo su quella donna è uno sguardo storicamente maschile. E' abbastanza naturale che chi scrive assuma un punto di vista, una soggettività, che non è solo sua, della sua vita, ma anche storica, di genere, e che quindi si porti dietro tutta un'esperienza che riguarda il mondo delle donne o il mondo degli uomini. Questo non vuol dire che io non possa scrivere di uomini (lo faccio in realtà in continuazione, perché poi queste donne si relazionano con degli uomini), però diciamo che mi identifico più facilmente con un personaggio femminile perché lo sento storicamente più vicino a me".
"La lunga vita di Marianna Ucrìa" ha avuto un grandissimo successo. Anche per lei questo libro occupa un posto particolare?
"Non lo so, perché io non ho pensato minimamente che avesse successo. E' stata una sorpresa anche per me. Non vi avevo messo qualcosa di diverso, per me era un libro come gli altri, che, stranamente, ha avuto un successo particolare".
Eppure lei ha dichiarato in alcune occasioni che c'è molto di autobiografico in quel libro, che per la protagonista si è ispirata per molti versi alla figura di sua madre, che per l'ambientazione si è ispirata a Villa Valguarnera a Bagheria...
"Beh, autobiografico non direi, perché la vita di Marianna Ucrìa è una vita completamente diversa dalla mia, ma certo questa donna era una antenata della famiglia di mia madre, gli Alliata Valguarnera di Salaparuta, quindi ho ripreso un po' le storie antiche della famiglia, facendo ricerche nei documenti storici e negli archivi locali, questo sì. L'ambiente e l'ambientazione, in effetti, si possono riferire alla storia della mia famiglia".
Oltre che di racconti e romanzi, lei è anche scrittrice di teatro. Com'è nato il suo interesse per il teatro?
"L'ho sempre avuto. Da bambina, in collegio a Firenze, facevo teatro con le mie compagne: inventavo le storie, le recitavamo insieme... avevo 10 anni, quindi è una passione che è cominciata presto. Poi per un periodo l'ho trascurata, per ricominciare negli anni '68-'69 mettendo in piedi una compagnia con un gruppo di giovani attori. Da allora la passione per il teatro mi ha sempre accompagnata. Prima vengono i romanzi, ma subito dopo viene il teatro".
E la poesia che posto ha nella sua produzione letteraria e nella sua esistenza?
"Ci sono ogni tanto delle piccole sensazioni, delle piccole emozioni che si possono dire solo in poesia, ovvero con un linguaggio estremamente geometrico, matematico e sensuale nello stesso tempo. Però questo accade ogni tanto, non mi considero un poeta professionale".
Qualche anno fa per la Rai lei ha condotto una trasmissione, dal titolo "Io scrivo, tu scrivi", in cui si insegnava l'arte della scrittura creativa. Ma si può imparare a scrivere, secondo lei?
"Il talento non lo si può insegnare, è ovvio. Però, una volta che uno ha il talento, gli si può insegnare a non fare certi errori un po' grossolani che si fanno spesso; a tirar fuori il meglio di sé; ad avere un rapporto complesso e approfondito con il linguaggio... sono cose che si possono anche imparare da soli, leggendo molto, però io penso che si possa aiutare una persona che scrive. Il talento da solo non basta: c'è una pratica, una conoscenza, un'esperienza... e questo credo lo si possa comunicare".
Se dovesse eleggere un maestro di scrittura per eccellenza, quale sceglierebbe?
"Non riesco a pensare in questi termini, perché la scrittura è veramente un fatto collettivo. Io ho tanti "padri" e tante "madri" e la scrittura per me è una serie di esperienze importanti che ho fatto cominciando a leggere quando ero piccola. Prima con i libri delle grandi avventure di mare di Conrad, Stevenson, Melville, che per me sono state importantissime, forse perché le mie prime esperienze le ho fatte sul mare, perché il mio primo viaggio, durante il quale ho aperto gli occhi sul mondo è stato un viaggio per mare, come ho raccontato ne "La nave per Kobe". E poi vengono tutti gli altri. Come si fa a dire se è stato più importante Proust o Balzac o Dickens? Sono tutti momenti della vita che hanno segnato delle esperienze molto importanti, che mi hanno formato. E la formazione avviene attraverso una pluralità di esperienze".
Qual è per lei il mandato della scrittura?
"La testimonianza del proprio tempo. Penso che lo scrittore sia un testimone del suo tempo e che debba dire la verità. Certo, stiamo parlando della sua verità, di quello che ha visto lui, ma quello che importa è che sia disponibile alla verità. Credo che alle volte una testimonianza di uno scrittore sulla sua epoca possa essere più rivelatrice di un libro di storia".
CATERINA CARAVAGGI