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Martedì 24 Marzo 2015 - Libertà

Libia: dall'occupazione italiana del 1911 all'Isis

Oggi in Fondazione incontro a cura dell'Isrec sulla minaccia del fondamentalismo islamico

di ANNA ANSELMI
Offrire chiavi di lettura per cercare di capire meglio cosa sta succedendo sull'altra sponda del Mediterraneo, tenendo conto della complessità di un Paese come la Libia, il cui rapporto con l'Italia è stato contrassegnato da "una serie di vicende difficili da riannodare dentro un'unica linea", a partire dall'invasione del 1911. Proprio da cui prenderà le mosse questo pomeriggio alle ore 18 all'auditorium della Fondazione di Piacenza e Vigevano, in via S. Eufemia 12, l'incontro coordinato da Carla Antonini, direttrice dell'Isrec, al quale parteciperanno Costantino Di Sante, presidente dell'Istituto di storia contemporanea di Pesaro e Urbino, che parlerà di "Italia - Libia, dall'occupazione del 1911 all'Isis", e il giornalista Diego Fabbri, consigliere redazionale della rivista Limes, che si soffermerà su "Le "maschere del Califfo" nell'attuale Medio Oriente".
Di Sante osserva come, pur con i distinguo necessari tra avvenimenti accaduti a un secolo di distanza, si riscontrino analogie tra la Libia attuale e quella del passato coloniale italiano: «In alcune realtà la gestione clanica e il modo di interpretare il potere sono rimasti, sotto certi aspetti, drammaticamente fermi a quel periodo». Ma anche il dilagare di armi, fornite abbondantemente nel 2011 dall'occidente, e non solo, specialmente alla città di Misurata, oltreché saccheggiate dagli arsenali dell'ormai defunta Jamahiriyya, ha parallelismi con il 1915-'18: «Anche all'epoca, dopo la prima guerra mondiale, si dovette procedere alla cosiddetta "pacificazione", per farsi riconsegnare le armi che erano state distribuite dagli italiani alle tribù ritenute amiche o comunque favorevoli all'occupazione. Oggi come allora non sarà semplice disarmare la popolazione» commenta Di Sante, convinto che in ogni caso un'ennesima operazione militare dell'Italia sarebbe deleteria.
«In Libia non abbiamo lasciato tracce completamente positive, almeno quando siamo intervenuti con le armi. Per ottenere il controllo "pieno" del territorio dal 1911 siamo dovuti arrivare al 1931- 1932 e facendo compromessi con le tribù locali. Quando abbiamo cominciato a "valorizzare" quella che chiamavamo colonia, non abbiamo permesso che si laureassero più di una decina di libici, né costruito quadri dirigenti, né modernizzato il Paese, in quanto considerato una colonia di popolamento, dove inviare le nostre braccia. Il rapporto tra l'Italia è sempre stato visto con queste ambiguità». Motivi che si aggiungono alle condizioni oggettive di portare avanti una guerra in un Paese molto vasto, anche se poco popolato, dove il controllo del territorio non si sa bene in che mani sia, ma è senz'altro frammentato tra milizie molto armate.
«Il problema è capire come si riuscirà a trovare una mediazione rispetto ai due governi che si sono formati e se sarà possibile ricostituire una Libia unita, che è sostanzialmente un'invenzione coloniale. La Libia è una realtà molto frammentata, non facile da tenere insieme per motivi logistici, storici, culturali. Come Paese si sta svuotando dei suoi abitanti, ma rimane una realtà di attraversamento per le popolazioni subsahariane in fuga. In più, c'è il rischio che in alcune aree il fondamentalismo islamico possa configurarsi quale unico collante tra le milizie».

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