Lunedì 12 Gennaio 2004 - Libertà
Requiem: il trionfo di Rostropovich
Municipale - Edizione da ricordare. Solisti, coristi e orchestra: c'è gloria per tutti. Regia pleonastica. E il direttore, commosso, bacia lo spartito di Verdi
Parrà magari eccentrica l'idea di inserire il Requiem di Verdi nel mezzo di una stagione lirica. Eppure eccentrica non è. A parte la logica nel posporlo ad Aida, rispettando l'originaria sequenza cronologica (1871-1874), è la marcata fisionomia teatrale, icastica, rappresentativa, del Requiem e della sua concezione musicale né chiesastica, né religiosa, né "sacra" in senso stretto - liturgico o dogmatico che sia - ad autorizzarne l'attuale presenza.
E poi perché mai un compositore dovrebbe figurare come uomo di fede per il solo fatto di aver scritto musica "sacra"? E' il caso, fra l'altro, di Brahms, che non si peritava di palesare il suo agnosticismo ovvero il suo ateismo, pur eleggendo a più riprese a precipua fonte d'ispirazione la Bibbia (l'atipico Deutsches Requiem fa testo). Analogo il caso di Verdi che, religioso semmai a livello di sentimento, pur abbonda di invenzioni d'impronta religiosa, dal biblico Nabucco a Forza del destino, da Otello ai Lombardi, a Simon Boccanegra, a Don Carlo.
Ma l'apice, l'acme, la summa del suo "credo" in musica sta nel Requiem, ove il sommo artiere del suono ha modo di esprimersi con estrema libertà, sciolto dai vincoli di strettoie librettistiche, e di confrontarsi immediatamente con il testo immutabile della cattolica liturgia funebre. Ne risulta quello che tutti conoscono come "dramma sacro" come monumentum aere perennius non tanto pervaso del senso del divino, quanto dominato dal mistero, dal terrore dell'inconoscibile, per cui protagonista ne è l'uomo - e nella fattispecie l'uomo Verdi -, non Dio; l'uomo ancora vagante ed esule in terra con tutto un carico di sofferenza, di pessimismo, di angoscia, di irrisolta tensione, cui solo a rari tratti pare aprirsi uno spiraglio di consolazione, di speranza in un mondo migliore, di affrancamento dall'afflizione.
Eppure, componendo il Requiem in memoria di Manzoni, da lui addirittura venerato, Verdi si attiene all'Ordinarium Missae cattolico, cioè alle cosiddette "parti fisse", dal Kyrie eleison all'Agnus Dei, oltre che al Proprium Missae, cioè all'Introito Requiem aeternam, all'Offertorio Domine Jesu Christe, al Communio Lux aeterna. A suggello, opta per il Responsorium ad absolutionem, Libera me Domine, anziché per l'Antifona In Paradisum o per il Cantico Benedictus, e quindi preferisce una dura e severa conclusione con menzione del giudizio del mondo per mezzo del fuoco anziché le visioni di pace, luce, speranza; e ne offre una traduzione musicale di agghiacciante drammaticità, di sconvolgente risonanza interiore, cui converrebbe un'analisi dettagliata, qui impensabile.
Pure torreggia il Dies irae, che Verdi, fisso alle parole ammonitrici della tremenda "sequenza" o "prosa" del francescano Tommaso da Celano, sente corrusco, balenante di ombre e di luci, congeniale al suo temperamento prorompente, facendone una sorta di "sabba" cristiano, ora carico di terribilità michelangiolesca, ora librato in assorta contemplazione, ora calato in lugubre desolazione. Vertigine nel testo, vertigine nella musica.
Che importa allora che si anatomizzi il Requiem di Verdi per scavarne e scovarne gli echi, i presagi, i rimandi, le assonanze, i riverberi del suo variegato cosmo operistico? Comunque lo si riguardi, esso svetta assoluto nella galleria di quanti si dedicarono al suffragio e addirittura all'autosuffragio in musica, per lo meno dai fiamminghi Johannes Ockeghem e Pierre de la Rue a Strawinsky e a Britten, attraverso Palestrina, Victoria, Lasso, Cavalli e ancora Mozart, Cherubini, Berlioz, Fauré e l'atipico Brahms.
La presenza carismatica di una personalità musicale di rilievo assoluto, di magnetica autorevolezza in veste di direttore conferisce lustro inconsueto a questa produzione del Requiem verdiano, il cui pregio risulta già dalla semplice lettura della locandina. In Mstislav Rostropovich si ravvisa anzitutto e soprattutto un grande musicista, un musicista di portata storica, e non solo, come tutti sanno, per ciò che attiene alla pura sfera musicale. In lui non è tanto la tecnica direttoriale a colpire, quanto il rispetto per la lettera e lo spirito dell'opera d'arte e la forza nel cercare di penetrarne e restituirne l'essenza; la forza del convincimento, dell'adesione alle intenzioni e alle prescrizioni della partitura. Sonorità metafisiche, tempi ieraticamente allentati, contrasti agogici e dinamici fin esasperati (ma sostanzialmente attenti alle indicazioni di Verdi) conferiscono suggestione a suggestione. Oltretutto il bacio impresso da Rostropovich alla partitura tra l'infuriare delle ovazioni finali dice l'umiltà di un grande. Il Requiem padano si è calato negli abissi insondabili di un'anima russa.
Ragguardevole il quartetto dei solisti, prescelti con cura antologica: soprano Doina Dimitriu di timbro melodioso, capace di filati lunari (pur fra qualche esitazione), potente quanto e quando occorre; mezzosoprano Daniela Barcellona salda e svettante per fluente morbidezza di mezzi naturalmente intensi senza la minima forzatura; tenore Acquiles Machado e basso Giovan Battista Parodi magari non imponenti (e perché mai dovrebbero esserlo: il Requiem non è Otello, non Don Carlo, non Aida), ma intonati, pertinenti per musicalità, gradevolezza e compenetrazione nel "ruolo", oltre tutto baciati da freschezza e gioventù.
L'orchestra della Fondazione, per l'occasione rimpolpata, raddoppiata, triplicata, quintuplicata e "soprelevata", si presenta al meglio delle sue possibilità, in fervida rispondenza con gl'intendimenti di un direttore-concertatore che ha saputo attuare nei suoi confronti una sorta di maieutica trasposta in musica.
La massa corale, si sa, è chiamata a un duro impegno, protagonistico senza mezzi termini. E il coro del Municipale, istruito con passione e competenza da Corrado Casati, lo assolve con professionale osservanza e con sentita partecipazione, si direbbe con rispetto devozionale. Per fortuna lo favorisce l'oratoriale immobilità.
La visualizzazione ideata da Pier'Alli s'impone - in sé e per sé - per superiore levatura traboccante d'ingegno, classe, invenzione, fantasia, cultura. Ma alla fin fine risulta inutile, pleonastica (se non proprio dannosa), poiché distrae dalla concentrazione che l'imperioso, essenziale, vertiginoso, apocalittico Requiem richiede, esige da chi ascolta. Che importa allora vedere? Perché sovrapporgli la prevaricazione, la violenza di immagini, colori, disegni, figurazioni, proiezioni sia pure sublimi? Qui è, deve essere solo la musica - musica di estrema eloquenza - a dettar legge. Qui deve vigere sovrano un unico imperativo categorico, kantiano o meno che sia: astrarsi, contemplare, meditare.
Comunque, questa memorabile produzione della "Toscanini" rimarrà iscritta a pieno merito negli annali del Municipale.
Francesco Bussi